martedì 29 giugno 2010

Chez L. Bunuel et le petit Chaperon Rouge



Clara – Giuseppe, dove vai Giuseppe?

Giuseppe – Sempre a zonzo per il bosco, eh?

Clara – Guarda che belle lumache, ne vuoi?

Giuseppe – No, grazie

Clara – Ho le more anche!

Giuseppe – No, vieni, ti accompagno

Clara – Non ho mica finito..

Giuseppe – Allora, peggio per te, io me ne vado. (..) Attenta al Lupo!







Il dialogo sopra riportato costituisce, all'interno dell'opera bunueliana - Il diario di una cameriera - , il segmento verbale di una descrizione strutturale dalla forte connotazione simbolica, rappresentando un "cameo" d'incantevole fascino nell'intreccio di una storia di per sé innovativa.

Qui, sembra che il racconto dei fratelli Grimm sia naufragato in un quadro preraffaellita e che l'acume ironico e sovversivo del maestro aragonese abbia raccolto gli elementi per recuperare dalla fiaba di Cappuccetto Rosso un corpus da reinventare con uno svolgimento e dei risvolti moderni, dove non solo si sposta l'asse dei contenuti antropologici e didascalici sul piano esclusivamente sessuale, ma viene annullata la funzione dell'aiutante per una scelta di eversione sul piano estetico e comunicativo, plasmando un epilogo dal carattere "disfunzionale".

I protagonisti dell'azione sono, per l'appunto, Clara e Giuseppe. L'una nelle vesti non solo metaforiche dell'eroina Cappuccetto Rosso, cestino in braccio e mantellina scivolata sulle spalle; l'altro in quelle del furbo ed infido antagonista: il Lupo.

Clara/Cappuccetto Rosso decide di compiere il suo viaggio di emancipazione e di conoscenza di sé e del mondo per un luogo che è, per antonomasia, quello prediletto dalle fiabe: il bosco dei sensi e dell'inconscio. E' lì che la vediamo stuzzicare con le dita una grossa lumaca, ed un momento dopo, nell'apparente aspetto tranquillo di una natura benevola e serenatrice, saltellare spensierata per gustare more tra i rovi.

Tutto questo lo effettua sperimentando e occupando uno spazio che sembra quasi una "stanza tutta per sé", in cui canalizzare il curioso gioco di bimba mediante l'"oscuro oggetto" lento e umidiccio che la informa di un territorio che le appartiene intimamente e introducendola alla scoperta di un desiderio dal sapore onanistico, dolce e sanguinolento come il piacere che le more tra le spine procurano. Universo, questo, d'immatura e accattivante sensualità che s'imprime tanto nell'aspetto mimico quanto nelle dinamiche dello sguardo e delle parole, a tal punto da somatizzarsi e rendersi istintivamente visibile e condivisibile. Ne scaturisce un processo di agnizione che ha la forza dirompente della fascinazione erotica latente, capace di tracimare e coinvolgere Giuseppe/Il lupo, dando luogo ad una prova reciproca fatta di provocazioni e avvertimenti, in cui, a tratti, si sovvertono i ruoli preda/predatore , nel finale che risulta inevitabilmente tragico.

Nella sfida a colpi di sguardi e offerte allettanti, di secchi rifiuti, s'affaccia incontrollabile il ripensamento, l'impulso ferino e l'infrazione del divieto.

Dallo scambio di segnali e suggestioni che emergono anche dal più innocente recesso sensuale, matura come raptus l' abominevole soppruso, risolto, sul piano estetico, con una sequenza di rara bellezza simbolica.

Folgorante e rivelatoria appare, dunque, l'immagine delle gambe nude di Clara che emergono tra i cespugli, nella evidente posa di una sessualità virginale usurpata con l'arbitrio, le cui tracce rimangono nel repellente tansumanare delle lumache sulla pelle, in luogo di incontrollabile istinto, divenuto viscido, spesso e perfino mortale. Fotogrammi liquidi ed intensi che impressionano l'anima e lo sguardo e che vengono anticipati da Bunuel con l'"escamotage" di due sfuggenti intrusi: il cinghiale e il coniglio che fuggono tra le siepi. Entrambi, in "falsembiante", non sono altri che lo spettatore, la società, la morale bigotta che proprio Bunuel tira spesso in ballo e che, qui, assurgono a simbolo di spudorata prepotenza, quasi sempre imbevuta di becera codardia e sottolineata, fuor da ogni retorica, dal sibilo lancinante del treno in fuoricampo, simile all'urlo di un'amanità ipocrita e indifferente.

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